Monte Cava

Tanta neve e alla fine una fitta nebbia per una escursione tipicamente invernale!

La forte smania di montagna, le poche finestre di bel tempo di questo incerto inverno e un week end finalmente stabile non potevano che raccogliere le adesioni di molti per una uscita immediata. Alessandro con Elena aveva già un impegno con me per essere accompagnato sul Murolungo; nel frattempo è riuscito dopo molta insistenza a crinare la resistenza di Giorgio che però del Murolungo non aveva nessuna fantasia. Massimiliano ci fa sapere che si unirà al gruppo; mancherebbe solo Diego che rimane assente. Al suo posto Gaetano, un amico di Massimiliano. E le convocazioni sono al completo. Manca solo la meta. Spunta la proposta del Monte Cava, questo isolato e forse banale 2000. Stranamente prende corpo questa meta e si fa progetto. Appuntamento alla base del sentiero proprio sotto la galleria di San Rocco; Massimiliano e Gaetano vengono in autonomia; noi quattro stipati dentro la piccola punto arriviamo un attimo dopo e ci incontriamo al bar subito fuori dell’autostrada all’uscita della Valle del Lago del Salto. Veloci, alla base di partenza alle 7,30 siamo in marcia sul sentiero pulito ma sotto una leggera spruzzata di neve, forse portata dal vento ma comunque foriera di chissà cosa. Le previsioni promettevano sole tutta la giornata, ma in alto, nello spicchio di cielo incassato al di sopra della Valle Amara le nuvole correvano veloci e instabili. Non eravamo più tanto certi che la giornata ci avrebbe regalato una bella escursione asciutta ma non ci siamo fatti prendere dallo sconforto a siamo filati veloci all’interno della valle. Il percorso era ormai noto dall’escursione sull’Uccettù e Morrone dello scorso autunno, ma il suo abito questa volta era del migliore bianco delle nevicate dei giorni precedenti. Dopo neanche 20 minuti il sentiero comincia ad imbiancarsi e passo passo che si saliva il manto nevoso aumentava di spessore. Il tempo di raggiungere il ruscello ormai rumoroso e pieno di acqua da scioglimento delle nevi e i primi due tornantini del sentiero che lo strato di neve comincia ad essere di quelli fastidiosi, poco stabili e purtroppo molli. I passi cominciano a farsi pesanti, la neve ci arriva prima ai polpacci e già all’incrocio del sentiero per i rifugi di Fonte La Vena alle ginocchia. Il sentiero è vergine e tra noi il cambio per aprire la traccia è frequente. Gaetano con i suoi più di cento chili di stazza annaspa come fosse in un pantano. Procediamo in fila indiana, silenziosi ad ammirare il solitario paesaggio del bosco ammantato di neve e concentrati sulle nostre fatiche. E’ un lavoro di anche, a sollevare le gambe tanto i passi sprofondano nel manto nevoso. Comunque si procede e arrivati al Mercaturo ci prendiamo una sosta. Il paesaggio è incontaminato, lo strato nevoso sempre più alto. Sappiamo che dobbiamo prendere per l’ultimo ma lungo strappo verso il Monte San Rocco e temiamo anche che prendendo quota, in fondo siamo solo intorno ai 1600 metri, le condizioni potrebbero ulteriormente peggiorare. Ma l’entusiasmo per la bellezza del posto davvero suggestiva e i segnali di una giornata che nel frattempo si andava rischiarando regalandoci spiragli di luce entusiasmanti ci consentivano di non dubitare. Ho preso il comando del gruppo e ho cominciato a tirare. La lunga leggera salita che tagliava il bosco era interminabile e faticosa, ma toccare quella neve incontaminata, aprire quel solco quasi fossimo una prua di una nave ci dava allegria ed entusiasmo. Ben presto il paesaggio si è aperto, il bosco diradato e l’ampia conca dei prati di San Rocco con i due rifugi isolati e coperti di neve hanno regalato un angolo di autentica poesia. Il paesaggio era davvero suggestivo e di rara bellezza. Nonostante tutto ci siamo resi conto che la stanchezza non era poi così tanta; il San Rocco era lì sopra e ci aspettava con un cielo azzurro galvanizzante. Il tempo di qualche foto e ripartiamo sempre annaspando. Solo in cima alla conca, da dove si cominciava quasi a sbirciare sul versante di Campo Felice il manto nevoso si faceva un pochino più consistente. Ma erano breve illusioni. A tratti si ricominciava a sprofondare, tanto che a prendere decisamente il comando delle operazioni era la leggera Elena. Lei come una farfalla passava dove noi sprofondavamo senza pietà alcuna. Una sosta poco sotto la vetta del San Rocco, al riparo da un vento ormai fastidioso, per placare la fame e la sete e per, purtroppo, accorgersi che il cielo , verso la conca dell’Aquila , stava caricandosi di buie nubi omogenee e compatte. Ripartiamo a arrivando sul San Rocco facciamo appena in tempo a fotografare la cresta prospiciente del Morrone che si andava coprendo di nubi. Tempo quindici minuti e anche noi ci siamo immersi nel bianco totale della nebbia. Avevo un po’ studiato il percorso temendo di trovarmi in quella condizione di invisibilità ormai tanto familiare in questo instabile inverno e non mi sono lasciato sorprendere. Avevo notato una strana formazione rocciosa che saliva proprio in cresta, una specie di spina dorsale affiorante, una doppia fila di roccette parallele che si perdeva sulle sommità della montagna davanti a noi che non poteva che essere il Cava. Quando il gruppo rallenta per la mancanza di visibilità prendo di nuovo il comando. Seguo le rocce affioranti e procedo comunque spedito. Il terreno a tratti è ghiacciato, sferza un vento freddo. Tutto si è fatto bianco e omogeneo; la poca luce che traspare non fa distinguere il manto nevoso dal cielo. Solo la sensibilità dei piedi percepiscono il saliscendi del percorso. Mi fermo per valutare il morale dei compagni ma mi accorgo che siamo uno in meno. Proprio Giorgio è in ritardo. Nessuno mi ha avvisato delle sue difficoltà sopravvenute. Un dolore alle anche lo costringe ad una andatura faticosa, inconsueta e massacrante. Fermo il gruppo pregandolo di attendere, torno indietro per andare a dar man forte all’amico; lo raggiungo e lo accompagno verso gli altri. Giorgio sente odore di vetta e arrivato a qual punto non ne vuole sentire di rinunciare. Proseguiamo quindi verso l’alto. Raggiungiamo la cresta del Cava; alla nostra destra intuiamo la mancanza di terreno, ma non riusciamo a distinguere nulla, nemmeno il grado di pericolosità. Prudentemente stiamo a debita distanza dalla cresta temendo invisibili balconi nevosi e riprendiamo a salire. Per dove? Questa era la domanda. A tratti la pendenza diminuiva, poi riprendeva. Sapevamo dalle carte dell’esistenza di una sella poco lontana dalla vetta. Gli occhi gridavano vendetta; nel cercare di percepire le differenze tra cielo e montagna, ora che non c’erano più rocce di riferimento, si perdevano in un niente che provocava quasi dolore; continuavamo a salire in una pendenza appena accentuata che solo i nostri piedi percepivano fino ad un punto in cui ogni passo in ogni direzione procedeva in una più o meno accentuata discesa. Che fosse la vetta? L’altimetro di Gaetano segnava quota 1990 il mio e quello di Alessandro invece una più lontana e bassa 1860. Dubbiosi anche dei mezzi tecnologici abbiamo continuato a cercare barlumi di ulteriore salita allontanandoci dal punto in cui ci eravamo asserragliati, ma senza avere riscontri. Ovunque si scendeva. Non rimaneva che dichiarare di aver raggiunto la vetta del Cava. Erano le 12. L’entusiasmo non era dei soliti. Il dubbio serpeggiava nel gruppo. Qualche foto e l’indugio del riprendere la via del ritorno è stato rotto. Inseguiamo le nostre stesse orme. Si è preso immediatamente a filosofeggiare sulla ragione di dichiarare la vetta raggiunta o no. L’accordo si è trovato su due punti: il primo avrebbe testimoniato per noi o contro all’arrivo in auto, dove la quota di altezza era certa e dove gli altimetri avrebbero parlato senza più dubbi: la seconda invece più sottile riguardava che anche se il punto raggiunto non fosse stata la vetta, la stessa non poteva che essere nei paraggi e che in condizioni normali nulla ci avrebbe impedito di raggiungerla. Non potevano essere certo poche decine di metri di dislivello, per di più banali e senza difficoltà alpinistiche, percorse o non percorse, a toglierci la soddisfazione di aver raggiunto l’obiettivo di vetta. Comunque, tra la nebbia incombente e le raffiche del vento prendiamo a scendere seguendo le nostre precedenti tracce. Velocemente guadagniamo quota e in un punto di rocce affioranti dove magicamente il vento insisteva meno ci accampiamo per consumare il nostro ristoro. Venti minuti di pausa che servono anche a sancire definitivamente la certezza interiore che la vetta è stata raggiunta e riprendiamo a scendere. Ero certo che al di sotto avremmo ritrovato le condizioni migliori di visibilità, ma temevo che la sorte ci regalasse ancora una volta una ennesima beffa. La stessa che si era presentata tante volte e che purtroppo si paventava ancora all’orizzonte quando raggiungevamo la sommità del San Rocco. Di fronte a noi sul Morrone le nubi erano spaventosamente nere e minacciose, ma dietro di noi la vetta del Cava si andava piano piano scoprendo. Quel che basta per far salire in noi il sapore amaro della beffa ma per fortuna anche la consapevolezza che la vetta l’avevamo raggiunta. Rientriamo nel bosco e scendiamo velocemente sulle nostre vecchie tracce. Nel frattempo in uno dei due rifugi dei prati di San Rocco il fumo esce dal camino, segno che dei temerari hanno intenzioni serie di pernottamenti notturni. Continuiamo a scendere e forse ognuno di noi lasciava una parte di se in quel fumo del rifugio abitato temendo e sognando una notte da frontiera. La discesa è stata veloce ma ugualmente faticosa perché la neve ancora più molle e fradicia ci faceva ulteriormente sprofondare anche sulle nostre vecchie impronte. Rincuorando e sorprendendo Elena con del te ancora caldo continuiamo a scendere attraverso il bosco. Passo dopo passo usciamo dal pantano della neve molle e riprendiamo a camminare su un terreno più amico. Nell’ultimo tratto del sentiero la neve del mattino era sparita segno che il tepore della giornata aveva preso il sopravvento. Alle 15 siamo in auto. Ci cambiamo degli indumenti bagnati e ci diamo appuntamento al bar dell’imbocco dell’autostrada. Dal terrazzo del bar la beffa ci viene servita su un piatto d’argento. Davanti a noi il San Rocco e il Cava si fanno spavaldi sullo sfondo ancora azzurro del cielo. In sostanza sono stati coperti da nubi giusto il tempo del nostro passaggio. Per fortuna, gli altimetri sballati e soprattutto la conformazione delle creste sommatali ci rassicuravano di aver raggiunto la vetta. La cosa non riusciva a farci riprendere dalla delusione della beffa ma era meglio di niente. Sono rimasto muto amareggiato da tanta sfortuna; ho ripromesoo a me stesso di ritornare sul Cava a riprendermi quanto mi era sto negato.